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L'INGLESE - THE LIMEY
(THE LIMEY)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 17 maggio 1999
 
di Steven Soderbergh, con Terence Stamp, Peter Fonda, Leslie Ann Warren, Joe Dallesandro (Stati Uniti, 1999)
 
Gli inglesi, quando si riferiscono un po' sprezzanti ai francesi li chiamano "froggies", divoratori di una razza meno prediletta sull'isola, le rane appunto. Quando negli Stati Uniti parlano di un inglese, usano invece il termine THE LIMEY, titolo di un piccolo gioiello: il giallo che Steven Soderbergh porta a Cannes - purtroppo fuori Concorso - esattamente dieci anni dopo aver sorpreso tutti con SESSO, BUGIE E VIDEOTAPE.

Liberato dopo nove anni di prigione in Inghilterra, Wilson è il Limey di turno: sbarcato a Los Angeles per vendicare sua figlia Jenny, morta in un sospetto incidente d'auto, ma legata ad un ambiguo produttore discografico, Terry Valentine. Wilson è Terence Stamp; e Terry è Peter Fonda. Wilson è il nome che Stamp aveva nel primo film di Ken Loach, POOR COW. E Peter Fonda è, occorre dirlo?, EASY RIDER: gli anni Sessanta (e molte cose ancora; che una visita al preziosissimo Omaggio che la prossima edizione di Locarno consacra al cinema americano nato in quegli anni vi regalerà...). Senza Stamp e Fonda, THE LIMEY non sarebbe che uno svelto, gradevole noir alla moda in più. E senza Soderbergh... che fa del suo thriller un mosaico, eccitante e commovente della memoria.

Girato con pochi dollari e non poco genio, THE LIMEY viaggia allora, più che sui binari collaudati e pur brillantissimi del suo genere su quelli del tempo. Un po', ma assai meglio di quanto aveva già tentato in OUT OF SIGHT, decostruisce la sua faccenda in tutta una serie formidabile di quella che la grammatica cinematografica definisce flashback e flash forward. Che è come dire un avanti ed indietro sulle ali delle memoria come quelli dell'immaginazione, della malinconia che si alterna al gusto come sappiamo gelido della vendetta. Un gioco, questo del fare a spicchi l'azione, che concorre a renderla non solo agile ed innovativa, ma soprattutto umana e riflessiva.

Ma non basta. Soderbergh ha acquistato i diritti del film di Loach: cosi, al posto dei soliti flashback sfumati ha inserito nel film vere e proprie sequenze di un Terence Stamp alle prime armi. In quanto a Fonda, basta quel suo sorriso melanconico di looser milionario, quel suo racconto cadenzato sullo spirito dei tempi mentre galleggia in decappottabile con la splendida ventenne sulla strada per Big Sur, per dire il tutto e niente che necessita sul personaggio di tanti sogni rimasti tali. Ritratti umani, psicologie svelte, umorismo e derisione (nei confronti di quella Hollywood che fa da sfondo), pudore dei sentimenti si traducono cosi in tutta una serie di dialoghi graffianti o, ancora, una pittura arguta ed originale dei personaggi secondari.

Come in ogni giallo che si rispetti il viaggio è di quelli che ci conduce all'origine del male. Con Soderbergh esso si sdoppia in un secondo, assai più consolatorio itinerario: nella memoria dei protagonisti, nelle ragioni spesso insondabili di un'epoca.


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